Il Cammino – Serena S-

Premessa:

Non tutti comprendono che la mia urgenza è il non pensare ed essere rivoluzionaria nel mio vivere quotidiano, quindi nel creare. Cercare di guarire con l’irrazionalità mi ha condotto fino a qui, ancora in piedi sulle mie gambe. Qualcuno non aveva ben compreso che non sono un bersaglio facile e ora, con un libro di Colette al mio fianco, e un dolore fisico palpitante ma non opprimente, cerco di aprire una finestra su un mondo che non esiste.

 

I racconti che compongono “La Pace tra le Bestie” sono stati scritti nell’epoca in cui l’uomo dilaniava l’uomo, più di un secolo fa eppure, cento anni dopo ancora resiste la stessa età in cui l’uomo dilania l’uomo, Colette non c’è più e, se ancora vivesse qualcuno di voi potrebbe meravigliarsi di ritrovarla protagonista di qualche programma televisivo? Anima sensibile, fuori dal comune in tutto, era conseguenza naturale che amasse profondamente gli animali, anche artista poliedrica e mai sgarbata e imprenditrice di sé stessa. Fuori dal tempo in cui, tutto questo, è quasi normale ma quando fa comodo, rasenta ancora l’eccezionale.  Perché trovo che nella vita di Colette tutto possa essere profondamente rosa e, coerentemente profondamente nero.

Fatte le dovute dimostranze: “Io non sono Colette, non ho il suo talento, la sua grazia, il suo coraggio”, anch’io mi sento di dire, sempre più a voce alta, che nella mia vita tutto è assolutamente bianco e, tutto è assolutamente nero. Allo stesso tempo, allo stesso modo…

 

 

 

La prima frase del primo racconto che si intitola “PUM” …

“Io sono il diavolo. Il diavolo. Nessuno deve dubitarne”, il racconto che apre questa antologia non vi guiderà all’Inferno, il protagonista non commetterà nessun atto irraccontabile, ma se estrapolata dal racconto di Colette e lanciata, con un grido, fuori da questa feritoia immaginaria porterà scompiglio nel mondo che non esiste e che, io voglio creare e raccontare.

 

 

 

Sono il diavolo, sono il diavolo…” continuava come una lenta, inesorabile cantilena annodata a un suono glaciale e solenne e, così profondamente femminile.

Avanti e indietro non poteva più andare, delle bellezze del mondo era stufa e il mondo intero si era dimenticato di lei, del suo essere appassionata e radiosa ma anche spietata e offuscata dai brutti sogni. Con gli occhi spalancati guardava il cielo sopra di lei che, come tutti i cieli, non aveva inizio e non aveva fine. Era incantata, persa finché le nuvole e le note serrate di un sintetizzatore la riportarono a sé stessa e ai confini di tutto ciò che andava dimenticando e andava costruendo. Era il suo delirio migliore e non ci sarebbero più stati sogni premonitori, quei terribili sogni che la perseguitavano, da quasi un decennio.

Il tempo di un’esplosione, come scrive Colette nel suo racconto dedicato a un gatto nero (“Nero, d’un nero rossiccio dalla fiamma della geenna. Gli occhi verde veleno, venati di scuro, come il fiore del giusquiamo…”) e l’essere che era stata scomparve in un bagliore di pagliuzze dorate e frammenti vellutati di rose scarlatte. Il suo nuovo aspetto era fulgido e gentile come quello di una guerriera soddisfatta da infinite vittorie, anche se nella sua vita precedente c’erano state solo crudeli sconfitte.

Nella sua bocca il sapore del sangue e il palpitare dell’eccitazione nervosa, residuo di un tempo ormai smarrito nel rinnovamento appena iniziato.

Da quella feritoia ormai poteva allontanarsi, si trovava ormai e finalmente dalla parte opposta. Un universo nuovo, non da esplorare ma da costruire, inventare e distruggere, se ne avesse avuto voglia. Un rivolo di sangue fuoriusciva dalle sue labbra nuove e quasi senza volerlo, con una leggerezza inaspettata, mosse il primo passo, poi il secondo e il terzo…

Di fronte aveva un fiume in piena circondato da grate arrugginite e bandiere stracciate, l’odore di resina portato da un vento cortese, la spinse ad attraversare i reticolati rugginosi di tutte le guerre e tra quei ferri, le ossa, le catene, le armi e poi l’acqua tumultuosa di quel grande fiume color del mare profondo. Attraversò il fiume con grazia e con coraggio e ancora e ancora finché non guardò di nuovo il cielo che ormai era rosa sfumato di arancio ma non era il tramonto, era solo un frammento di pensiero che qualcuno, in un mondo non più suo, le destinava.

 

Voi ridete, senza capire. Gli arabeschi della mia danza, i segni malefici che disegno nell’aria, i geroglifici della mia coda che si torce come un serpente tagliato, che cosa potete leggervi? Voi ridete, anziché tremare, quando schiaccio sotto di me, con un balzo definitivo, l’ombra cornuta, il dèmone gemello che sento palpitare e dibattersi, l’ombra che potrebbe ingrossarsi come una nuvola e coprire, con un’ala spaventosa, questa terrazza, e il prato, e la pianura, e la vostra fragile casa…

 

Colette “La Pace tra le Bestie”

 

Aprì di nuovo gli occhi, alle sue spalle la finestra da cui ora fuoriusciva una luce calda e rassicurante, quel pensiero formulato da chissà chi aveva mutato le cose e, soprattutto l’aveva riportata indietro, all’inizio di tutto. Di fronte a lei i reticolati stanchi di infinite guerre e poi il grande fiume color del mare.

Attraversò di nuovo il filo spinato, calpestando antiche e violente morti, con i suoi piedi delicati e nudi come quelli delle ninfe leggendarie, senza avvertire nessun dolore così come non avvertì il gelo di quelle acque agitate, quando attraversò per la seconda volta il grande fiume.

Al di là di tutto percepì di nuovo quei suoni affascinanti e minimali, la brezza riportò l’odore di resina, di bosco, di lichene ma, davanti a lei splendeva una pianura senza fine e non c’erano alberi, solo fiori e ali di farfalle mentre il sangue continuava ad uscire dalle sue labbra e amava così tanto il sapore del sangue che avrebbe voluto non smettere mai di sanguinare.

La sua veste era rossa accecante e poi più blu della notte più buia per essere anche candida e morbida come un fiocco di neve caduto l’ultimo giorno d’autunno. Il cielo le concesse di proseguire il suo cammino e dopo tanti, tanti passi decise che quei fiori meravigliosi, tra cui aveva riconosciuto i petali gialli dell’arnica e quelli turchesi dell’anemone, si mutassero in fasci di luce celeste che, in un’istante, presero a danzare con i suoni e confondersi con l’azzurro del cielo e il bianco generoso delle grandi nuvole premurose.

 

Era il suo modo di mostrare gratitudine e forza.

Non era madre, non era matrigna ma in modo assoluto creava e, con la stessa assolutezza avrebbe potuto distruggere.

Era il destino che aveva scelto e la prateria si riempì, di nuovo, di fiori.

 

Da qualche parte avrebbe costruito il suo regno e avrebbe continuato il cammino all’infinito o fin quando avrebbe desiderato, un fulmine silenzioso squarciò il cielo e la riempì di vibrazioni mai provate prima ma, forse tante volte desiderate. Immaginò un puledro al suo fianco e quello apparve, bello come il sole nei giorni in cui si era concessa di amarlo, scalpitò e si lanciò al galoppo e una pioggia di petali la costrinse a chiudere gli occhi. Quando gli riaprì il cielo era ancora quello di un pomeriggio sereno e così, proseguì il viaggio.

 

La prateria è infinita, è così che deve essere, è così che la desiderano gli spiriti veramente liberi.

“Io sono il diavolo”, si ripeteva mentre sorrideva e amava ogni sfumatura e ogni filo d’erba.

Poi una montagna apparve ed era impervia e nuda come una gigantesca roccia, il vento si alzò più forte, i suoi capelli si irradiarono per tutto il cielo e il suo corpo si distese e poi estese finché non divenne più alta di tutte le montagne che aveva potuto vedere con i suoi occhi. Era libera e al suono si aggiunse una voce quasi angelica ma non di un angelo…

Il sangue era caldo, il synth suonava esaltando la sua grandezza e la montagna di pietra quasi scomparve sotto i suoi piedi, ancora gentili anche se enormi.

Eppure…

Al di là di quella pietra tutto era di nuovo ordinario se, di ordinarietà si può parlare di un universo tutto in divenire e completamente suo.

“Laggiù, da qualche parte, immersa nel profumo dei fiori, forse creerò la mia montagna: isola colma di boscaglie e profumo di bacche e resine, oppure camminerò ancora nel vento, nel desiderio, nelle trasformazioni prodigiose eppure così naturali”.

 

Diavolo, guerriera e Natura…

Tutto si fondeva, tutto era ricchezza e leggerezza…

Finché fu sfiorata da corpi freddi e grigi, come una tempesta improvvisa, come dardi di ghiaccio lanciati contro di lei…

Era la morte terrena che attraversava il suo percorso più estremo. Il gelo della pelle, la voracità del fuoco. Improvvisa nella sua lentezza, implacabile nel suo porgere sempre un fianco, perché illudere il nemico con l’eventualità di una vittoria è l’essenza stessa della crudeltà più appagata e appagante…

 

 

 

La morte, ora in forma di demone alato, marciava al suo fianco lungo il cammino, che non era più prateria o spoglia pietra, bensì i tasti neri e bianchi di una tastiera gigantesca. La musica avvolgeva i suoi pensieri e percuoteva i suoi sensi in modo piacevole e ritmato. L’oscura presenza a un certo punto sarebbe scomparsa per divenire parte del tutto, così come era naturale che avvenisse, ma intanto le riportava alla memoria ricordi lontani e una vena di profonda nostalgia la fece sanguinare di nuovo.

Nella precedente esistenza ben due volte si era trovata al cospetto di Vanth, l’antica divinità etrusca e, in entrambe le occasioni non era sola e, quel “Non ero da sola, non ero da sola, non ero da sola…”, prese forza nella sua mente sostituendosi a tutto il resto e tutto il suo vigore e la sua determinazione vacillarono e sconvolsero le sue nuove certezze..

Per un istante si trovò al centro di un universo completamente grigio e silenzioso, senza alcuna feritoia né sfumatura arancio, in punta di piedi come se stesse per spiccare il volo verso aldilà sconosciuti o come se stesse per lanciarsi in un abisso senza fondo, e non era esattamente quella la verità che cercava e che le concedeva la pace che andava cercando?

Un equilibrio basato su infiniti squilibri, il suo senso di giustizia, il suo amore vissuto nell’unico modo in cui era stata capace di viverlo, non pretendevano che quello…

Fuggire da tutti gli assoluti, da tutte le altrui certezze e dai bisogni di chi, mentre ti tende la mano per sollevarti, ne approfitta per innalzare le proprie convinzioni

Era stata un gigante, aveva oltrepassato la montagna, aveva creato un mondo di immagini, suoni e profumi e con la morte al fianco era giunta fino a lì.

Colette, la sua scrittrice preferita aveva trovato la pace tra le bestie, lei l’aveva cercata e trovata tra le pareti grigie del suo stesso dolore.

 

 

Il confine grigio tra il tutto e il niente, l’assenza di tutto e il tutto più solenne. Il grande vuoto dentro ora la circondava e accoglieva e trovava finalmente naturale guardare in alto e alzare le braccia, non per raggiungere qualcosa e neanche per arrendersi agli altri da cui si era allontanata,  ma per prendere coscienza della sua stessa esistenza senza nessun altro fine se non l’essere capace di respirare anche da sola e senza un domani.

 

 

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