Il racconto che segue fa parte dell’antologia autoprodotta nel 2018 “Il Lamento di Venere”.
Camminava la mattina presto, che era ancora notte, lungo la via dei platani; era una lotta armata, una ferita dilatata, si lasciava dietro uno strascico di felicità vagheggiata tra i petali di povertà tangibili. Che cosa era tra le sue braccia il mondo? Era un niente, una nube solforosa, maleodorante; uno schiaffo dato per gioco ma ugualmente infame; marciapiedi umidi, fazzoletti impregnati di sperma, muco di vecchi sulle sue giovani spalle, candide e predisposte al martirio. Tutta lì la vita, insieme a un drappello di scelte sbagliate e per lo più non sue.
Le palazzine liberty e il loro incantevole decadimento; i grandi hotel con le luci gialle, calde; le effigia della vecchia belle époque, solo quelle ancora integre. Quella nuova, quella in cui si stava esibendo con quel suo ruolo da figura misera, di “epoca bella” era molto meno elegante, per nulla signorile, quasi comica e stantia, nonostante si dovesse definire moderna.
Puttane e padroni, tuttavia, se non fosse stato per la totale mancanza di buon gusto nel vestire e nel vivere, erano ancora i protagonisti indiscussi; in mezzo il gioco di potere, più grande di tutti, inalterato come un antico e tutelato monumento all’umanità; e su tutto potenti proiettori, luce arrogante e degenerata: alla gente ora piacevano unicamente i difetti, le mancanze, le insufficienze.
La borsa piena di soldi che non le sarebbero mai appartenuti, le caviglie affaticate, il sudore freddo sotto la minigonna di pelle nera e la saliva sporca, soprattutto quella. Desiderava con tutta se stessa vomitare l’anima e lavarsi i denti con un buon dentifricio e bere acqua fresca, un litro di acqua fresca, limpida; come quella delle sue montagne, che giungeva giù dalle alture e si perdeva in tanti rigagnoli trasparenti, sul muschio bello delle distese erbose.
Era quasi scontato ammetterlo ma, ormai, gli uomini le davano la nausea: col voltastomaco li arruolava a clienti; come se avesse avuto una pistola puntata alle tempie, si accomodava vicino a loro nelle grandi auto che andavano avanti e indietro per il viale alberato, e faceva la carina con la spontaneità di chi, l’indomani, è atteso dal plotone di esecuzione. Le chiome generose dei platani smorzavano la luce dei lampioni, ma ugualmente era disumano confrontarsi con quei volti, con quei fiati, con quelle voglie. Il suo sesso si rifiutava di accoglierli e a loro piaceva sentirla così serrata come una verginella, come una bambina da far sanguinare all’infinito.
Non era una puttana come le altre, così le aveva detto, una volta, un cliente, e lei si era chiesta che cosa avrebbe dovuto rispondergli. Con un grazie, forse? Sorrise, sistemò i lembi sgualciti del giacchino argentato e corse via, con i soldi in tasca e un paio di lividi tra le cosce.
Dopo si era domandata ancora “com’erano le altre?” Erano le uniche persone che frequentava, oltre a clienti e “datori di lavoro”. Erano, soprattutto, le sole donne cui si avvicinava, con cui scambiava qualche frase, magari nella sua lingua, parole che non erano solo cifre di denaro o parolacce. Nonostante tutto non le conosceva per niente, e tante volte, nelle sue veglie agli angoli della strada, si sorprendeva a pensare ai volti spigolosi delle ragazze dell’est con cui condivideva marciapiede e angolo cottura; oppure alle lunghe gambe, color caffelatte, di una nigeriana con cui aveva condiviso l’ombrello durante un temporale. Si ricordava che profumava forte di fragola e parlava in modo così musicale che avrebbe voluto abbracciarla e dormire con lei. E che cosa era quella sensazione potente che aveva provato qualche giorno dopo, incontrandola per caso alla fermata dell’autobus? Desiderio, forse? E perché era nata, per quale motivo l’avevano messa al mondo? E poi perché era sempre stata così sfortunata e, suo padre non si era limitato a compiere il suo dovere. Perché non si era saputo accontentare di quello che avevano, di quello che ricevevano?
E sua madre, per quale ragione non aveva rispettato le regole; perché aveva sempre qualcosa da ridire e, quel qualcosa non andava detto? Le avevano sempre parlato di libertà e di possibilità. Nel loro paese non avevano conosciuto né l’una né l’altra; le avevano intuite entrambe, assaporate, sognate, bramate. Spasimavano per quella parola, Libertade, dieci sillabe, così tanta enfasi, e la rassegnazione a tratti, come tante piccole quieti prima d’infinite tempeste; prima del dolore, della lotta, della disillusione mai ammessa per quel finale tragico immerso nelle grandi bugie della Storia nuova. E il finale era lei che, alla fine, la libertà agognata l’aveva raggiunta. E ora, infatti, era libera. Libera di passeggiare senza slip per le strade di un Paese non suo. Libera di allargare le gambe e di aprire la bocca a pagamento. Libera di indossare i tacchi alti anche quando i suoi piedi non ce la facevano più. E poi soprattutto era libera di essere una schiava, che non era cosa da poco!
Quella rivoluzione di cui era stata involontaria partecipe la maiuscola non l’aveva proprio meritata se ora era lì, a battere i marciapiedi, per conto terzi, tra le rovine di una cittadina dell’Italia centrale, dove in mezzo a degrado imperante ogni casa aveva la sua immaginetta sacra, con tanto di lampadina e mazzolino di fiori di plastica e, dove l’economia era retta da gioco d’azzardo clandestino e prostituzione, e di questo parlavano tutti e sempre sottovoce.
Il suo palcoscenico, quello fatto di cemento, asfalto e sputo, non era così lontano dall’altro mondo, quello delle famiglie riunite intorno a un tavolo, quello delle pastasciutte fumanti e dei bambini intelligenti e sensibili parcheggiate alle scuole materne; lei quegli asili li conosceva da lontano, li osservava all’imbrunire dal marciapiede; usciva da quelle stanze una lugubre luce al neon che sapeva di obitorio, i balocchi dipinti sui muri avevano sguardi taglienti; a lei i bambini non piacevano, piccoli esseri ipocriti, orribili come gechi, figli o, molto più spesso, nipoti dei suoi clienti; inoltre emanavano cattivo odore esattamente come i vecchi, ma ugualmente provava un po’ di pena per loro; sapeva lei, meglio di chiunque altro, che per loro non ci sarebbe stata nessuna fiaba e nessuna fatina buona; un giorno forse solo una prostituta come lei, infelice e falsa, le attrici migliori dell’universo dei cattivi come quello dei buoni, a cullarlo un giorno, a sollazzargli i genitali per una cifra, tutto sommato, abbordabile.
Intuiva però che se i bambini non gli piacevano era anche per invidia, perché lei bambina lo era ancora e lo capiva da quel torrente in piena che le scorreva con impeto nella testa ogni qual volta un cliente la montava. Perché, perché, perché… Che stupida che era.
Quello godeva sopra di lei, dentro di lei, la riempiva di carne calda, leccava, mordeva, oltraggiava e lei aveva solo le sue domande ossessive, continue, martellanti, fino a stordirsi.
Avrebbe dovuto amarlo il sesso, adorarlo come i suoi avevano venerato la Libertà, così in quell’oggi sarebbe stata felice per quello che aveva e per quello che riceveva, e il futuro sarebbe stato un’idea per lo meno tollerabile. Avrebbe dovuto amare anche gli uomini; essere innamorata di loro fino alla follia. I loro gesti, il loro odore, il loro sesso. Provare gioia sincera per ogni loro orgasmo, per quel seme caldo che le riversavano sul ventre e sulle gambe abbellite dalle autoreggenti; andare in estasi ed essere sincera ogni volte che pronunciava quelle frasi che aveva imparato in perfetto italiano: quanto è bello il tuo cazzo, fallo entrare nella mia fica bagnata, fai di me la tua grande troia, amami almeno un po’ prima di pagarmi, poi ciao… Avanti un altro, piacere, estasi, sesso, sesso, sesso e ancora un altro e sorridere e ridere e godere per quello, godere per tutte le porcherie del mondo!
Non andava così per lei. Tutto era più complicato, era stata da poco “venduta” a un altro. Un uomo di mezza età, parlava un brutto italiano; aveva occhi liquefatti, criminali; la prostituzione era solo una delle sue tante attività illegali, forse solo un passatempo: voleva provare ogni nuovo acquisto. L’aveva presa tutti i giorni, qualsiasi fossero le sue condizioni, per lei era orrore puro. Sapeva che fino a quando non fosse arrivata una nuova ragazza, la prescelta sarebbe stata lei. Chiudeva gli occhi ma non poteva tapparsi il naso: le mani le servivano: per stimolarlo, per stuzzicargli l’ano. Lui ordinava, lei ubbidiva. Lui sopra il suo corpo, addosso al suo cuore che ormai era solo un muscolo difettoso, ma non sopra i suoi pensieri. Quelli non poteva coprirli, né scoprirli…
Per sopravvivere a quei quarti d’ora che sembravano anni pensava a lei, solo a lei… A quegli occhi color smeraldo, puliti, ancora energici. Immaginava quel corpo da sirena, le braccia lunghe e sottili, i fianchi poveri, il sesso ombreggiato da una leggera lanugine.
Nei suoi sogni a occhi aperti, sotto i colpi del suo padrone, desiderava di possederla, si prendevano a vicenda, si coprivano: era bello inventarsi un amore in cui trovare rifugio; creare una dimensione dove agli uomini non era permesso entrare, pena: l’evirazione!
Loro due, tra tante altre, sacerdotesse spietate dell’amore tra donne, del loro sesso unico e solo! L’aveva vista completamente nuda solo una volta, era appena uscita da sotto la doccia, il suo corpo brillava e profumava, il vapore caldo rendeva la scena come parte di una visione onirica. Si erano osservate senza parlare, poi le punte delle loro dita si erano sfiorate, come in un incantesimo.
Che cosa pensasse, quali fossero i suoi sogni, le sue aspirazioni, le sue paure più intime lei lo ignorava; non la conosceva, non si era mai soffermata a pensare che tipo di persona sarebbe stata se la vita fosse andata diversamente per entrambe. In quel momento, nella sua mente, non ci fu più nessun punto interrogativo, solo un piacevole oblio, un affascinante languore che le separò da loro stesse e dalla povertà morale da cui erano schiacciate.
E mentre il padrone pompava piacere dal suo corpo, la sua mente riviveva fantasie e piccole realtà ormai lontane, ma non sfumate. Si erano afferrate; erano entrate in una camera,; non era la loro, ma non aveva molta importanza, ormai l’avevano capito, un letto vale l’altro.
Ida, si chiamava così, la fece sdraiare; prese a baciarla con dolcezza su tutto il corpo, era come se le stesse restituendo la bellezza, la sensibilità, il respiro. L’apice del piacere arrivò improvviso, e riuscì a viverlo senza fingere, forse per la prima volta. Restarono vicine, Ida era molto bella e molto triste. La bellezza, per lei, era come un gioiello che indossava per abitudine. Poi si erano salutate, per la verità in modo freddo, non c’era niente da dire. Erano due prostitute, anzi due povere sbandate libere di vivere la peggiore delle vite. Non l’aveva più vista; né sotto la doccia, né per strada, ma era ancora lì, fissa nelle sue fantasticherie, tra molteplici domande infantili e amplessi obbligatori.
Poi un giorno di sole, che fu molto più breve del solito, perché per lei solo le notti erano interminabili, quanto fredde; Ida ricomparve tra le bancarelle della piccola China Town per turisti; comprava abiti e biancheria intima a buon prezzo. Era triste come l’ultima volta che l’aveva vista, e molto bella.
Ida fu la sua nuova liberazione poiché ultimo acquisto del suo protettore; era quindi la nuova preferita. Saperla sotto il peso di quell’uomo, tra il sudore di quel porco annichilì le sue fantasie.
Arrivò una notte piena di stelle in cui fu pagata da un cliente quasi bello, quasi gentile; la prese da dietro, le fece un male generoso che era quello che le serviva per svegliarsi dal torpore e dall’avvilimento. Si era sentita un’animale ridicolo e impotente; ora era diventata una belva consapevole.
Il dondolare dei suoi orecchini eccessivi, il suo ansimare sempre più forte. Alla fine lui gli offrì una sigaretta, l’accettò anche se non aveva mai fumato in vita sua, non poteva permettersi di lasciare scivolare via nessun gesto di generosità. L’alba la sorprese per strada, con lacrime nere disegnate sul volto.
Nel pomeriggio cercò Ida, la scorse entrare in una stanza; una mano grossa e lurida le stringeva il polso. Una scena che conosceva molto bene, ma non da spettatrice.
Ida era il vento della primavera, o meglio lo era stata per preziosi ma effimeri istanti. Ora era una schiava da liberare e il solo mezzo che aveva per tornare a tempi pre-rivoluzionari.
Entrò nella stanza, il padrone si stava togliendo i calzoni, Ida era nuda sul letto, i capelli color miele le incorniciavano il volto inespressivo e lieto. Prese una bottiglia di whiskey che qualche ragazza aveva scolato per dimenticare o per scaldarsi, prima di uscire in guépière per le strade di novembre. Con forza la ruppe contro lo stipite della porta spalancata, si scagliò con freddezza verso l’uomo in mutande, lo colpì, lui rotolò per terra gridando impazzito; lei senza badargli si chinò su Ida, ora incredula e terrorizzata; si fissarono per un attimo che fu un niente, poi le taglio la gola con l’arma indegna e irregolare.
Si sedette in attesa ai bordi del letto insanguinato. A lei la libertà non era mai piaciuta.
“LIBERTADE” Serena S.