Nonno Mario

 

Nonno Mario

Non ho dormito stanotte, ma non pensare che io sia stata male. Me ne stavo al caldo vicino a te, qualche grado sotto zero, dentro casa noi due avvolti dal silenzio, interrotto solo dagli impercettibili sospiri di un gatto, e pensavo a nonno Mario. Nonno Mario era il mio bisnonno, il babbo della mia nonna paterna e io l’ho conosciuto. Questo fatto, l’aver conosciuto almeno due dei miei bisnonni, fa parte delle cose belle della mia vita e ne sono fiera. Non solo perché non capita a tutti di conoscere i propri bisnonni, ma anche perché nonno Mario, detto “il Folci”, nel mio paese era un personaggio e, secondo me, lo era a buon titolo, ma puoi accusarmi pure di essere di parte!

Il termine “il Folci” è rimasto nella nostra parlata paesana (tra quegli innumerevoli modi di dire che ti fanno sempre ridere e che, i pisani se li sognano!), infatti “sembri il Folci” si trova spesso in uno di queste situazioni:

  • oh, ma dove l’hai presi ve pantaloni lì? Mi sembri il Folci
  • sei fatto proprio come il Folci, un ti si po’ di’ nulla che t’inculisci
  • oh! Guarda bellino luilì come cammina diritto, oh lo sai chi mi riorda? Ir tu’ nonno Folci

Allora bisogna che ti spieghi un po’ di cose. Il mio bisnonno pur essendo una brava persona, possedeva un caratterino tutto fatto come gli pareva. Permaloso, un po’ eccentrico, un tantino squilibrato nelle reazioni. Tutte caratteristiche che sono passate poi alla mia nonna, al mio babbo e, alla fine, alla sottoscritta (ma questo forse l’avevi già capito). Era inoltre un uomo alto (anche se non come suo padre che, dicono fosse alto due metri e passa), alto e magro, distinto , con un certo portamento . Aveva uno stile anche nel vestire, personale e avanti con i tempi. Senza sforzi di memoria me lo rammento immerso in un atmosfera da vecchio film, all’inizio degli anni ’80, quando il mio paese era ancora un paese di campagna e i cittadini se ne stavano ancora nelle loro città (bei tempi); quando ancora non ero stata inquinata da scuole, amicizie, generi musicali strampalati e riviste alternative. Quando non avevo ancora tradito le mie radici e potevo dirmi figlia, o per lo meno nipote, del suo stesso mondo: il mondo di nonno Folci che affondava le radici nella cultura contadina.

Si, lo rivedo scendere sornione i tre gradini della Casa del popolo (o della sezione come dicevano gli anziani, o il barreincima come dicevano i giovani, per distinguerlo dal barreinfondo, vicino alla chiesa che frequentava anche il prete, don Celio, con la tonaca lunga fino ai piedi con cui diceva la messa e vangava l’orto). A volte lo incontravo al bar, se era davanti al bancone ad aspettare il ponce o il corretto al cognac o a discorrere con il barista o con gli avventori, teneva sempre le mani in tasca come il bandito di un film di cappelloni (cow boys) e poi i pantaloni di nonno Folci, a sigaretta, più stretti di quelli degli altri suoi coetanei, e tenuti sempre arrotolati alla caviglia, gli scarponi alti di pelle, che nulla avevano da invidiare a quelli dei due punk che abitavano poco distante da casa mia, la cacciatora di velluto all’indietro, lo sguardo sprezzante ma, in qualche modo profondamente buono, e io lo salutavo.

Quando dava uno sguardo al giornale, sorseggiando vino rosso, seduto su quelle poltroncine fatte con i fili di plastica colorata, invece non lo salutavo, perché non volevo disturbarlo, per un senso innato di profondo rispetto. Ho ancora negli occhi quell’angolo di bar.

Quello che sto per dirti e che, probabilmente, già sai, potrebbe ancora raccontartelo lui, se un giorno che passi di lì, da quel luogo di pace che è il cimitero di O. ti viene voglia di andarlo a trovare. Lui è lì da un pezzo ma, come ti ho detto, può ancora dirci qualcosa…

Lo vedi con i suoi capelli diritti sulla testa, il volto tranquillo, quello di un ragazzo del ’99, del 1899 ovviamente e, questo vuol dire che fu tra quei 260.000 giovani che, nel 1917, non ancora diciottenni e senza aver ricevuto una seria preparazione furono mandati sul campo di battaglia, per il capriccio bellico di re e imperatori e che, nonostante la giovane età e l’impreparazione, permisero all’Italia la vittoria del 1918. Poi, sul finire, degli anni ’60, nonno Mario fu nominato Cavaliere di Vittorio Veneto (che voleva dire ricevere una pensione di 5mila lire al mese) e anche questo può dirtelo lui.

Quello che, sicuramente, non ti dirà è che faceva l’orto ed il suo era un orto bellissimo e ordinato, un orto che oggi non esiste più, al suo posto un giardino verde senza troppi fiori. Durante la Seconda Guerra Mondiale (e fortuna volle che da noi la guerra passò d’estate…), sfamò tanta gente, paesani e sfollati, poiché non finiva mai di dare i suoi frutti e ortaggi e questo, per come me lo sono immaginato, a me sembra quasi una magia, così come magico mi appare un altro episodio che mi raccontava spesso nonna. Di quando era in guerra, in trincea, e sentiva nostalgia di casa, dei fratelli, dei genitori, volle fare qualcosa di talmente bello che dovette, per forza, tornare a casa! Ricamò il suo nome sul delicato scheletro di una foglia autunnale e riuscì a portarla a casa, tanto che giunse fino alla mia nonna, primogenita di cinque figli, qualche anno dopo. Mi sarebbe piaciuto poter ammirare quella foglia magica che mi ha dato la possibilità di conoscere il mio bisnonno! Mi sono sempre chiesta come ci fosse riuscito, ma, ormai, la risposta non è più di questo mondo.

E poi non ti direbbe mai che il lavoro in ferrovia lo portò, per un certo periodo, a vivere in Iugoslavia e dopo in Liguria (a Savona), dove mia nonna ebbe il suo periodo felice da figlia unica; così come non potrebbe più dirti che la mia bisnonna Teresa era una gran cuoca e che le sue torte co’bischeri (cotte nel forno a legna di una corte chiamata Piccola Russia) erano le migliori del suo mondo, né che lui era un appassionato cacciatore e che preferiva di gran lunga mangiare a casa invece che al ristorante, ma soprattutto non ammeterebbe mai che nella sua vita ci fu posto anche per tante amarezze e dolori, che dovette passare molte notti in un fosso (ripensando forse alle trincee della sua gioventù) per non essere catturato dai tedeschi, del dolore che provò quando due delle sue figlie scelsero di andare a vivere lontano (una a Parma, l’altra in Canada) e poi la tragica morte di suo fratello maggiore, ucciso nella lontana e quasi mitica, Los Angeles, e che dovette subire le mancanze di rispetto di gente che non meritava affatto la sua benevolenza e l’aiuto che da lui aveva ricevuto.

Ricordo bene le parole di nonna Teresa, il giorno in cui , così senza un motivo apparente nonno Folci morì. Lei era una donna minuta e rotonda, con i capelli argentati sempre in ordine nella retina e la vestaglia con i fiorellini bianchi su qualche sfondo scuro, di solito blu…

“Non avrei mai creduto che se ne andasse prima di me…” me lo disse sorridendo, forse perché ero la più piccola della sua famiglia.

La verità è che non avrebbe mai voluto che lui se ne andasse prima di lei.

Restare da sola, senza il suo inquieto Mario. E ora capisco il motivo. Capisco tutta la sua disperazione trattenuta dietro quel sorriso, dolce e amaro insieme.

Vivere senza di lui era ritrovare la calma in un mondo in cui più niente ti appartiene.

Osservando questa fotografia i miei bisnonni Teresa e Mario, si trovano quasi sicuramente in Abruzzo, negli anni ’60. Questo ce lo dicono l’abbigliamento e i tratti delle persone che sono alle loro spalle

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