Domnisoara Skal- cap.6 – romanzo

Le avventure di Domnisoara Skal

/2006/

(capitolo sesto)

Quattro passi con Skal

/dal diario di Skal/

 

Lavorare con gli altri molto spesso risulta monotono, preferisco procedere da sola, perdermi nel mio mondo, l’unico in cui riesco a essere una grande organizzatrice. Ripenso spesso a quell’ultima passeggiata notturna in compagnia di Emil de Laszowska e a quegli ultimi tenebrosi giorni trascorsi in quella città che non rimpiango, invece Emil mi manca moltissimo. So che le nostre strade sono destinate a riunirsi ma, per ora, lascio che scorrano parallele.

Dopo aver portato a termine quella che ormai consideravo la mia “missione”, il mio unico desiderio era tornare a casa, in fondo sono sempre una ragazza di campagna e una parentesi nella mia casa natia mi fu di grande conforto. In questo momento sono di nuovo in una grande città, ma l’atmosfera che mi avvolge è molto diversa. Budapest vista dall’alto è splendida. La mia soffitta è un piccolo tributo alle principesse del Bosforo e, Pergolino è, in questo periodo, il mio unico amico! Passeggio spesso solitaria in queste strade ancora un po’ estranee ma seducenti, mi diletta sentirmi una straniera e respirare con più distensione; nessuno reclama qualcosa da me e posso dare libero sfogo ai miei pensieri, e riordinare riflessioni confuse, come quelle a proposito di una non lontana notte di Luna piena, un tredicesimo plenilunio.

Il pacchetto che avevo ricevuto dal Conte Dracula conteneva un piccolo quaderno, non so come possa esserne entrato in possesso, molte cose ancora mi sfuggono riguardo al legame tra lui e quella famiglia, so solo che guardare quelle immagini fu come sbirciare nel profondo dell’animo di Simina: là dentro c’era il suo mondo, le fiabe che più amava, i suoi disegni, ritratti a carboncino eseguiti da uno dei fratelli, tra questi uno mi colpì più degli altri, era la riproduzione del ritratto che era in possesso del Conte Dracula. Una Simina bambina che cullava un piccolo gatto tigrato. Pergolino mi osservava con uno sguardo languido ma attento e misterioso, come solo i gatti sanno fare. Qualcosa parve aver attraversato la mia anima, come se una voce silenziosa e potente allo stesso tempo mi parlasse da qualche angolo remoto del mio essere. Non avrei mai voluto lasciare fuori Emil da quella vicenda ma quella voce mi fece comprendere in modo limpido che solo io avrei potuto fare qualcosa per chi tanto a lungo aveva gridato aiuto. In tutti quei lunghissimi anni un grido aveva attraversato il mondo che mi circondava, ma nessuno era stato in grado di udirlo o comprenderlo.

Aspettai impaziente la notte in cui in cielo avrebbe sovrastato la Luna Blu, quei giorni furono i più lenti e vani della mia vita, finché quella notte giunse.

Sorprendentemente Pergolino non fece le solite bizze per entrare nella sua detestata gabbietta, anche se i suoi occhi sfolgoranti mi dicevano palesemente di non essere al settimo cielo! Fuori faceva freddo, una fitta bruma lasciava a malapena intravedere la mia preziosa luna in cielo, i lampioni erano come sfere luminose indefinite; l’oscurità era delle più paurose e per strada non c’era anima viva. Rimasi come pietrificata davanti ai cancelli del giardino ma sapevo esattamente quello che dovevo fare, il conte Dracula insieme a quel grazioso documento mi aveva consegnato anche una lettera contenente delle istruzioni, molto bizzarre per la verità.

 

“Raggiungi la metà del parco, dove il piccolo fiume ora è diventato un torrente impetuoso, dirigiti verso il bosco di querce, quello più antico, e scendi le scale di pietra…”

 

 A questo punto non potevo non impallidire e chiedermi se forse il conte si era sbagliato o volesse tirarmi uno scherzo. Ovviamente in quel punto del parco non c’era nessuna scala di pietra; ma nella lettera era scritto chiaramente che avrei dovuto discendere delle scale, pur sapendo che non era possibile farlo, conoscevo troppo bene quel luogo! Il mio gatto mi osservava raggomitolato nella sua gabbietta, il parco aveva la stessa cupezza di quella notte di novembre in cui tutto era iniziato. Avanzavo titubante, in breve intravidi il fiume e il ponticello ormai miseramente decaduto, ma non aveva importanza, la residenza dei Rulikowscky sorgeva in quella metà del parco, non c’era bisogno di attraversare il fiume, dovevo solo dirigermi verso il bosco delle antiche querce, il luogo in cui la luce dei lampioni non arrivava, il regno dell’oscurità che tanto amavano i rapaci notturni. Il cuore mi batteva forte e avrei desiderato avere Emil al mio fianco, a darmi coraggio, invece dovevo accontentarmi di un felino domestico, probabilmente molto fifone!

Il bosco di querce mi ricevette silenzioso e buio come avevo immaginato, camminai sull’erba umida e alta, i miei stivaletti stringati sprofondavano nel terreno cedevole e umido, quando urtai contro qualcosa. Un piccolo muro di sasso. Accesi il lume che avevo con me, vidi chiaramente l’ingresso di una stretta scala sotterranea. Sembrava un normale ingresso di una cantina scavata nella terra, non fosse che si trovava in un parco pubblico che conoscevo piuttosto bene e non avevo mai sospettato che vi si trovasse nulla di simile. Le scale erano strette e scure, in buona parte ricoperte di muschio, tutto era esattamente come aveva descritto il conte, temporeggiai un po’ ma alla fine scesi il primo scalino, poi il secondo e in poco tempo mi trovai in uno stretto varco le cui pareti erano abbrunite dal fumo, tracce di un vecchio e spaventoso incendio. Tuttavia quel luogo abbandonato aveva un qualcosa di conosciuto per me, come se qualcosa di ormai familiare mi avesse accompagnato fino a lì. Avvertivo che molto presto il mistero si sarebbe manifestato

Quello che accadde poco dopo è, a oggi, l’esperienza più sconcertante di tutta la mia esistenza. Niente per me sarà più lo stesso. La vita, o meglio il mio modo di vedere questa nostra esperienza terrena è mutata irrimediabilmente, e non so se sia proprio un male…

Al termine di quell’angusto corridoio c’era una stanza piuttosto spaziosa, un grosso e antiquato baule lasciava intravedere parte del suo contenuto, come se qualcuno avesse cercato di portare via gli oggetti contenuti ma poi, all’improvviso avesse cambiato idea, così vecchie bambole e abiti consumati dal trascorrere del tempo e parzialmente coperti di cenere, stavano lì abbandonati per sempre. La cenere era ovunque, alle pareti erano appoggiati scaffali miracolosamente ancora in piedi, contenenti libri, carteggi legati insieme con nastri scoloriti e grosse scatole di legno annerito, ma su cui alcune immaginette, da cui erano state rese più eleganti, erano ancora visibili come testimonianza di una gentilezza lontana. Quello, secondo il conte Dracula, era il ricovero in cui Simina si era nascosta per sottrarsi all’incendio o forse, prima ancora, per sfuggire agli assassini di Omar e di suo padre, il principe Zygmunt. Chissà a quali orrori era stata costretta a essere testimone prima di rifugiarsi lì, in quel luogo in cui poi era rimasta prigioniera e in cui le speranze di ritrovarsi di nuovo circondata da tutti i suoi cari erano svanite per sempre, eppure proprio quel suo sperare con tutto il suo essere e la sua innocenza; quella forza inconsapevole e sovrumana che Simina possedeva era riuscita a sconfiggere, almeno in parte, la nostra più indistruttibile nemica: la morte.

Che cos’è un fantasma se non un’anima che non sa di essere morta, quando la solitudine è così totale e opprimente che non c’è niente a evidenziare il trapasso. Simina esisteva ancora, nonostante quei quasi duecento anni di oscurità e silenzio. Lei era lì, in piedi, di fronte a quel suo letto di fortuna, per terra i suoi abiti da amazzone, inutilizzati da ormai troppo tempo.

Simina mi fissava con splendidi occhi tristi oppure con due cavità vuote sopra un teschio annerito. Questione di punti di vista. La vita e la morte danzavano irregolarmente d’innanzi a me, seguendo il ritmo sconvolto dei miei stati d’animo. La fronte mi si coprì di sudore. Lei era immobile, non riuscivo a capire se quell’immagine fosse di carne o di solo spirito, se riuscisse ad accorgersi della mia tremolante presenza. Il mio cuore batteva ancora più forte o moriva per sempre. Mi avvicinai verso quelle due immagini sovrapposte di Simina, appoggiai per terra il lume e la gabbietta di Pergolino, aprii lentamente il piccolo cancello di vimini e strinsi il gatto tra le braccia, avvertii un calore rassicurante contro il mio petto mentre mi avvicinavo ancora di più a Simina. Qualcosa mutò in lei, apparve spaventata, si allontanò bruscamente, portò quella sua graziosa manina bianca di giovane donna, contro la grande bocca senza labbra, poi parve calmarsi. Allungai le braccia in modo di avvicinarle Pergolino che ora si trovava a pochi centimetri da quell’apparizione, lo stringevo stretto tra le mani ma era stranamente tranquillo. Lei lo guardò a lungo con una parvenza di sorriso. Quell’antico sorriso che doveva aver abbellito il suo viso quando la vita era completamente in lei, si scontrava con il mesto ghigno del sonno eterno.

Avrei dovuto definirlo spaventoso, orrendo, allucinante… Ma la compassione doveva essere più forte di tutto il resto. La sua mano, ora scheletrica ora ancora paffuta e candida, accarezzò la testa del gatto, certo doveva aver amato molto quel gattino che non aveva potuto portare con sé, e in quel momento rivedeva in Pergolino quel suo amico perduto; poi alzò lo sguardo verso di me, mi fissò a lungo, occhi da dolce cerbiatta si alternavano continuamente con quelle pietose e vuote cavità. Il suo teschio ondeggiava su un corpo di carne o il suo volto vivente torreggiava leggiadro e colmo di dolcezza su un corpo mummificato.

Vidi le sue labbra muoversi ma non udii il suono di nessuna parola, probabilmente la sua voce non era più udibile per noi mortali, ma avvertii tutto il mio essere riempirsi di una sensazione di profonda gratitudine e gentilezza. Pergolino rientrò nella sua gabbietta e io appoggiai su un tavolino il diario di Simina, il quaderno che il conte mi aveva consegnato. Quando mi voltai nuovamente verso di lei la sua figura era avvolta da una splendida luce perlucente. Simina si stava addormentando e il suo volto ora era un’unica immagine serena.

Svanì nel nulla poco dopo; uscii da quella stanza e da quei sotterranei, la Luna troneggiava splendida illuminando il più bel palazzo che io avessi mai visto, esattamente come il giardino in cui mi trovavo. Sciami di lucciole e farfalle notturne danzavano tra i fiori profumati e si nascondevano tra le rigogliose chiome degli alberi. Una musica celestiale proveniva da quelle stanze illuminate da mille candele e leggiadre figure di altri tempi danzavano felici. Se quello non era uno scorcio di paradiso allora doveva trattarsi dell’originaria residenza dei principi Elisabetta e Zygmunt e là dovevano esserci anche Simina, i suoi fratelli e il fedele Omar. Tutti insieme, al sicuro. Attorniati da un immenso parco, dove scorreva il torrente impetuoso che nasceva dalle montagne selvagge. Poi tutto scomparve con l’arrivo dell’alba e il giardino in cui fiorivano gli iris anche d’inverno, torno il luogo tranquillo e ordinario che tutta la città conosceva. Il palazzo era svanito, tornato nella sua dimensione, per sempre riappacificato con l’umanità terrena.

Non avrò più modo di camminare in quel giardino incantato ma oggi, passeggiando tra le romantiche tombe del cimitero di Kerepesi, mi trovo al confine tra due mondi, immagini speculari l’uno dell’altro, e il ricordo di Simina è più vivo che mai.

Mentre sfilano silenziose, tra i rampicanti, le anime di tanti eroi, musicisti, poeti e persone strappate troppo presto all’affetto dei propri cari, posso ora pensare senza timore che un giorno, forse ancora lontano, anche il marmo della mia tomba luccicherà tra le foglie dell’edera.

 

 

FINE

ENIF

Theda Bara



Accompagnamo Skal nella sua passeggiata a Fiumei úti nemzeti sírkert, ovvero Kerepesi il cimitero più famoso e antico di Budapest (sono stata lì il 16 agosto 2005).

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